In gioco non c’è solo un treno inutile
di Ezio Bertok (pubblicato su Comune-info il 31/10/2015)
[Il primo fu chiamato a giudicare il comportamento dell’esercito degli Stati Uniti in Vietnam, il secondo il ruolo delle imprese multinazionali nelle dittature di Pinochet e delle altre giunte militari del Sudamerica. Dal 1979 l’eredità del Tribunale Russel, per iniziativa di Lelio Basso, è stata raccolta dal Tribunale Permanente dei Popoli. Giovedì 5 novembre sarà a Torino per esprimere un’autorevole e importante sentenza su alcune gravi violazioni dei diritti fondamentali come il mancato ascolto di un’intera comunità. Sono state commesse, quelle violazioni, in nome del progresso, per realizzare il percorso del treno ad alta velocità da Torino a Lione e altri megaprogetti utili soltanto al sacro business delle Grandi Opere.
Una notizia di grande rilievo per chi si sente parte di quello che è da tempo molto più di un movimento di protesta e forse trascurabile per il circo mediatico che, in caso di Tav, si alimenta solo di problemi ordine pubblico]
Entrato nella nuova aula magna dell’Università di Torino, quel signore tanto distinto ne era uscito in fretta. Si era reso conto che lì si stava parlando di Tav e, in particolare, delle ragioni di chi si oppone al progetto in Val di Susa. Ad alta voce e con accento marcatamente torinese, aveva spiegato con garbo il perché di quel repentino dietrofront: “Io sono Sì Tav, neeh. Me ne vado, i notav sono rincoglioniti”. Poco elegante, forse un po’ troppo sintetico ma sincero. Non era stato difficile intuire che l’apprezzamento andava esteso a tutti quelli che si confrontano con le ragioni notav, al di là dei diversi punti di vista. Dal giornale che teneva in mano si poteva dedurre che fosse un lettore di una fonte d’informazione sull’alta velocità di enorme rilevanza per l’opinione pubblica locale, La Stampa. A onor del vero, tuttavia, c’è da precisare che il quotidiano torinese, così come Repubblica, ha sempre raccontato i notav come nemici del progresso, egoisti, fanatici, terroristi. Mai come rincoglioniti.
Quel giorno era il 14 marzo della scorsa primavera. Capita di ricordare la data esatta di un episodio di così scarso rilievo, ma indicativo di una certa formazione mediatica del consenso, solo in relazione a quanto accaduto lo stesso giorno. Si tratta di un fatto di ben altro spessore, malgrado La Stampa e gli altri grandi quotidiani abbiano deciso che non valesse neanche una riga. Non ci aveva stupito il silenzio dei media: era pur vero che quel giorno a Torino c’erano molti notav ma sarebbe stato molto arduo presentare anche quell’evento come un problema di ordine pubblico. Non potendo criminalizzare, non restava che oscurare. Le armi di disinformazione di massa sono micidiali anche quando tacciono. Quel 14 marzo a Torino s’era aperto un nuovo capitolo nella storia e nella cronaca della resistenza di un’intera popolazione, quella della Valsusa. Ed era solo l’inizio.
Nella stessa aula in cui era entrato per errore il distinto signore, gremita da oltre quattrocento persone, si era aperta una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (Tpp). Era stato chiamato a pronunciarsi sulle violazioni di diritti fondamentali connesse al progetto Tav Torino-Lione e, più in generale, ad altre grandi opere anche nel resto dell’Europa. Storie di diritti negati, di democrazia sospesa, di spazi di partecipazione cancellati, di cittadini e amministratori locali inascoltati. Sono accuse pesanti ai governi nazionali, alle istituzioni europee, alle grandi lobby che dettano l’agenda della politica, che impongono grandi opere inutili e devastanti infischiandosene dei bisogni e rovesciando la scala delle priorità: ospedali, scuole, pensioni, tutela del territorio possono aspettare tempi migliori. Quel giorno i notav valsusini presentavano il conto, ben sapendo che in gioco non c’è solo un treno inutile.
Giovedì 5 novembre il Tribunale Permanente dei Popoli tornerà a Torino e in Val di Susa per la sessione conclusiva dedicata a “Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere“. Per tre giorni ascolterà testimonianze di cittadini, tecnici, amministratori, la sessione si concluderà domenica 8 novembre con una sentenza. Il Tpp, erede del Tribunale Russel, è un tribunale di opinione, il suo parere non comporta ripercussioni dirette sul piano giudiziario ma sarà difficile ignorare il significato di un pronunciamento preso da un organismo di altissimo prestigio a livello mondiale. I nove giudici che faranno parte della giuria arriveranno anche da lontano: Francia, Spagna, Portogallo, Cile e Colombia. Sono giuristi, magistrati, economisti, esperti di diritti umani di fama mondiale ed esprimeranno un giudizio sulla base delle testimonianze ascoltate e dei documenti prodotti in questi mesi.
A sostenere le accuse non ci saranno solo i Valsusini, ma anche chi da anni denuncia i guasti del Mose di Venezia, del MUOS di Niscemi, del progetto di aeroporto a Notre Dame des Landes e altri ancora. Nei decenni scorsi, il Tpp si è occupato di diritti violati da politiche coloniali in vari paesi, soprattutto dell’Asia e dell’America Latina. Non è di scarso rilievo il fatto che intervenga oggi anche nel cuore dell’Europa e metta al centro delle sue attenzioni il Tav: la Val di Susa è un laboratorio di ricerca avanzata di nuove forme di democrazia ma anche il luogo di sperimentazione di una nuova politica coloniale diversa nelle forme rispetto a quelle tradizionali dei secoli scorsi ma non per questo meno devastante.
Per i Valsusini questo è solo l’ultimo, in ordine di tempo, degli innumerevoli tentativi di far sentire la loro voce. E proprio il mancato ascolto di un’intera comunità sarà la questione centrale su cui il Tpp valuterà se vi siano state o meno violazioni di diritti fondamentali. In venticinque anni, in Val di Susa le hanno provate proprio tutte per farsi ascoltare: lo hanno fatto quando ancora pochi, al di fuori della valle, avevano sentito parlare di una resistenza popolare nata già agli inizi degli anni ’90 e che affonda le radici nella Resistenza della metà del secolo scorso e poi nelle lotte per la difesa del lavoro che avevano visto gli operai di una fabbrica rifiutarsi di costruire armi. Da quelle lotte era maturata la convinzione che per ottenere risultati occorreva mettersi di traverso in prima persona, la delega è un’altra cosa. Negli anni successivi hanno messo in pratica ciò che avevano imparato, hanno continuato a mettersi di traverso e oggi non hanno alcuna intenzione di smettere.
Ci sono volute le prime violenze della polizia, a Venaus nel 2005, per squarciare il velo del silenzio. Solo allora è balzata agli onori della cronaca la dimensione vera di una resistenza unica nel suo genere, animata dal protagonismo di un’intera popolazione. Il silenziatore è comunque rimasto sulle ragioni del no. E pensare che quei pazzi di valsusini avevano coniato uno slogan che riassumeva in una sola riga il senso di un quarto di secolo di lotta: “Per essere notav non occorre essere valsusini, basta essere onesti e informati”. Quanti hanno raccolto l’invito? O meglio: quanti hanno potuto informarsi cercando di sfuggire alle strette maglie di un’informazione mainstream asservita agli interessi e alle logiche del più grande business del secolo, l’alta velocità?
Se c’è una cosa che ai protagonisti di questa straordinaria lotta non ha mai fatto difetto, quella è la tenacia, la proverbiale capacità di tenere aperte tutte le strade: dalla raccolta di migliaia di firme poi presentate al parlamento europeo alle innumerevoli manifestazioni con decine di migliaia di persone, dai tentativi di ostacolare inutili sondaggi propedeutici all’apertura dei cantieri ai tentativi di ostacolare i lavori del primo di essi. Non si contano le notti trascorse a fronteggiare ingenti schieramenti di forze dell’ordine a difesa di una semplice trivella: migliaia di persone incuranti delle temperature ben al di sotto dello zero determinate a fermare un mostro che divora risorse e distrugge un territorio in nome del “progresso”. Le parole perdono significato, rimane la speranza di ridare loro un senso. E dalla lotta sono nate mille iniziative per ribaltare quella logica: ad esempio la creazione di reti di produttori e di piccoli imprenditori capaci di rilanciare le economie locali, le uniche in grado di salvaguardare un territorio visto come terreno di conquista per nuove avventure. Avventure coloniali, appunto.
Oggi in tv e nei grandi quotidiani il problema Tav in Val di Susa viene presentato come un problema di ordine pubblico e basta, la repressione ha raggiunto livelli inimmaginabili. Una volta si diceva: “Colpirne uno per educarne mille”. In questo caso i numeri vanno rivisti: “Colpirne mille per educare un intero paese“. Le ragioni del no sono più oscurate di prima, quelle del sì sono inconfessabili come sempre. L’ordine di scuderia è: “Dagli al terrorista”, mentre il partito unico degli affari e le procure decidono che cos’è democratico e che cosa è sovversivo: un gesto di sabotaggio che danneggia un compressore è un’azione terroristica, le falangi valsusine di oggi sono l’Isis nostrano di domani. Se non fosse drammatico ci sarebbe da ridere.
Il Controsservatorio Valsusa vuole contribuire a rompere questo accerchiamento politico, mediatico e giudiziario che cerca di ridurre all’impotenza la Valsusa guardando ad altri orizzonti. Per questo, tra le altre sue iniziative, ha voluto investire il Tribunale Permanente dei Popoli di una questione di diritti violati. La speranza è che ognuno faccia suo lo slogan dei valsusini, adattandolo alla propria realtà: “Per essere notav non occorre essere valsusini, basta essere onesti e informati”. E determinati a mettersi di traverso. Venite a trovarci dal 5 all’8 novembre, vi ospiteremo volentieri.