Sessione conclusiva del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata a Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere
5-8 novembre 2015 - Torino/Almese
Requisitorie finali
1. Presidente, giudici,
compete a me, in rappresentanza dei ricorrenti, tirare le somme di queste due giornate e rivolgere a voi le nostre richieste. Lo faccio – non lo nascondo – con grande emozione. Mi è accaduto spesso, in oltre 40 anni di magistratura, di assumere conclusioni in processi complessi e delicati. Ma oggi è diverso. Perché, mano a mano che procedevano i lavori, è accaduta una cosa inedita: i ricorrenti sono come scomparsi e la scena è stata occupata da un movimento di popolo imponente che, con forza e determinazione, ha chiesto giustizia. Si tratta di un movimento di cui la comunità della Val Susa è, in qualche modo, esponenziale. Di un movimento che dalla fine del secondo millennio si aggira per l’Italia e per l’Europa (come è emerso in maniera articolata nella giornata di ieri) sull’onda di quanto, da oltre un secolo, accade nei paesi del Sud del mondo, in Africa, in Asia, in America latina, con decine di lotte in difesa del territorio e dei diritti dei popoli (come sta scritto in numerose vostre sentenze, a partire dalla prima, dell’11 novembre 1979 sul Sahara Occidentale e poi in quelle su Timor Est, sull’Amazzonia brasiliana, sulla Colombia e via elencando sino alla più recente, pronunciata appena un anno fa, su «libero commercio, violenza, impunità e diritti dei popoli in Messico»). Quel movimento è stato il protagonista di queste giornate.
In questi giorni avete toccato con mano uno scorcio di realtà illuminante. Avete visto volti e sentito voci di donne e di uomini informati, responsabili, determinati: i ragazzi di Bussoleno (che vi hanno parlato delle loro motivazioni e anche delle paure che le lobby del TAV cercano di suscitare), i pensionati di Borgone (che, da dieci anni, ogni giorno che Dio manda in terra abitano il loro presidio in difesa del territorio della Valle), l’assessora di Chiomonte (che, pur inizialmente favorevole al TAV, si dimette in lacrime di fronte alla devastazione della Maddalena), i professori del Politecnico (che da decenni gridano nel deserto delle istituzioni e della politica la follia di quest’opera), Emilio, il pescivendolo di Bussoleno (che – come vi ha detto con orgoglio – non aveva mai visto un giudice prima di cominciare ad occuparsi di TAV e che chiede per sua figlia la salute che lui e sua moglie hanno perduto), Luca (che non parla di sé e della sua caduta dal traliccio ma del futuro della terra e delle montagne) e molti altri ancora. Non avete visto e ascoltato dei luddisti irragionevoli, degli Asterix e degli Obelix fuori dal tempo e dalla storia e tantomeno dei pericolosi terroristi (come pure sono stati presentati e trattati). Lo so bene: tutto questo non significa ancora che quel movimento, quegli uomini e quelle donne, abbiano ragione. Ma significa che meritano rispetto, attenzione, ascolto: tutte cose che in questi anni sono state loro negate dalle istituzioni e dalla lobby delle grandi opere (una lobby economica, politica, informativa che domina questa regione e questo Paese solo scalfita, qualche volta, da indagini e arresti per corruzione e malaffare).
Avete visto e sentito, in questi giorni, pezzi di realtà. Non le rappresentazioni deformate dei media, della politica che conta, di pezzi della magistratura. Non i meravigliosi scenari di carta patinata e i video propagandistici; non le mirabolanti descrizioni di giornali appartenenti a società nei cui consigli di amministrazione siedono i proponenti e gli aspiranti costruttori dell’opera; non gli spot elettorali di ministri che, come emerso da alcune intercettazioni telefoniche, non distinguono un’autostrada da una ferrovia e di sindaci che confondono Kiev (stazione finale prevista del corridoio ferroviario in cui è inserita la Torino-Lione) con Mosca o con Pechino. A fronte di queste corrazzate mediatiche e pubblicitarie il movimento di opposizione sembra un piccolo Davide impegnato in una lotta impari contro Golia. Ma la partita è aperta. E il movimento No TAV è determinato a vincerla, continuando ostinatamente a condurla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Anche per questo ci siamo rivolti a voi, a un tribunale internazionale e indipendente, consapevoli che questa è solo una tappa, ma convinti che sia una tappa importante per la Val Susa e per tutte le comunità che versano in situazioni analoghe.
2. Nel dichiarare l’ammissibilità del nostro ricorso, il 20 settembre 2014, la presidenza del Tribunale ha precisato l’oggetto e i limiti di questo giudizio che riguarda – per usare le vostre parole – «l’effettività delle procedure di consultazione delle popolazioni coinvolte e la loro incidenza sul processo democratico», in un contesto in cui si diffondono le «situazioni ‒ più volte rilevate anche in sessioni del Tpp – che mettono in discussione e in pericolo l’effettività e il senso delle consultazioni e la pari dignità di tutte le varie componenti delle popolazioni interessate».
Di questo, dunque, ci siamo occupati prevalentemente in questi giorni: di diritti delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia potremmo dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte che vanno in direzione opposta e di regimi che tutto sono meno che democratici. Ci siamo occupati, più nello specifico, del rapporto tra diritti fondamentali e modalità (e limiti) delle decisioni politiche ed economiche quando queste hanno per oggetto opere che incidono in maniera irreversibile sull’ambiente, sulla economia, sulla salute di decine di migliaia di persone. Come sono le grandi opere di cui abbiamo parlato in questi giorni: il TAV in Val Susa (ma anche a Firenze, nel Regno Unito e nei Paesi Baschi), le dighe del Mose a Venezia, il ponte di Messina (incredibilmente ritornato di attualità in questi giorni), l’aeroporto di Notre Dame des Landes in Francia e molte altre. Opere a cui abbiamo affiancato altri interventi di devastazione ambientale che seguono la stessa logica, come la miniera d’oro a cielo aperto di Rosia Montana in Romania (le cui immagini sinistre ci ricordano quelle di miniere simili nel Perù e nel Cile), le trivellazioni alla ricerca di gas e petrolio in diverse regioni d’Italia, lo sfruttamento intensivo delle cave di marmo nelle Alpi Apuane, il Muos a Niscemi.
Siamo partiti dal TAV in Val Susa: un’opera ciclopica devastante (il cantiere che alcuni di voi hanno visto mercoledì scorso riguarda solo una galleria propedeutica ed è, dunque, una piccola anticipazione di quanto si vorrebbe fare…), di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica. E, contemporaneamente, un’opera – sta qui il primo punto di questa sessione – decisa in modo autoritario, con la esclusione sistematica di ogni confronto reale con la comunità territoriale.
Esattamente – ed è questo un secondo snodo della sessione ‒ come accaduto in tutte le grandi opere in corso di progettazione o costruzione esaminate in questi giorni. Ed esattamente come accertato – è il terzo passaggio da sottolineare – in precedenti sessioni di codesto Tribunale come quelle relative alla Amazzonia al Guatemala e al Canada e in innumerevoli altre regioni del globo.
Ciò rinvia a un sistema che si ripete con sostanziale identità per tutte le grandi opere inutili e che si articola in tre fasi fondamentali:
a) la sistematica estromissione delle popolazioni interessate dalle decisioni e dal controllo sull’iter dell’opera, realizzata escludendo, di fatto e/o mediante provvedimenti legislativi e amministrativi ad hoc, ogni procedura di informazione, consultazione e confronto e/o adottando procedure di consultazione puramente apparenti e/o disattendendo le consultazioni effettuate;
b) il condizionamento e lo sviamento delle valutazioni delle comunità interessate, dell’opinione pubblica e talora degli stessi decisori politici mediante la manipolazione dei dati relativi all’utilità e all’impatto delle opere, nonché l’elaborazione al riguardo e la conseguente diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica (amplificati in modo martellante da organi di stampa spesso controllati da soggetti interessati all’opera);
c) la permanente e totale impermeabilità a richieste, appelli, sollecitazioni ed esposti di istituzioni territoriali, comitati di cittadini, tecnici e intellettuali e la parallela gestione della protesta e dell’opposizione come problemi di ordine pubblico demandati, talora anche grazie ad appositi provvedimenti legislativi, al controllo militare del territorio e all’intervento massiccio degli apparati repressivi (con significative limitazioni di diritti dei cittadini costituzionalmente garantiti).
3. Nell’impossibilità di ripercorrere il modo in cui questo sistema si è atteggiato nelle singole vicende esaminate in questi giorni, mi limiterò all’esame di come ciò è accaduto in Val Susa (con qualche flash sulle altre situazioni).
Comincio dalla mancanza di vere procedure di consultazione, di coinvolgimento e di concertazione. Procedure – merita ricordarlo – che sono oggi previste in modo esplicito da specifiche fonti normative internazionali, a partire dalla Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 (ricordata ieri con grande efficacia da Tiziano Cardosi e da Sabine Bräutigam) secondo cui «quando viene avviato un processo decisionale che interessi l’ambiente, il pubblico interessato è informato in modo adeguato, efficace e a tempo debito, fin dall’inizio» in modo che «si prepari e partecipi effettivamente ai lavori durante tutto il processo decisionale». Ma, prima ancora, procedure che costituiscono l’ABC della democrazia (la quale o è partecipazione o, semplicemente, non è).
Ebbene, in Val Susa è avvenuto questo:
a) dai primi anni Novanta sino alla fine del 2001 (periodo cruciale, in cui è intervenuto l’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001 che costituisce la base normativa dell’opera) è stata ignorata la stessa esistenza delle comunità locali. Nessuno si è preoccupato di informarle e di sentirle (come hanno analiticamente documentato, tra gli altri, Ezio Bertok, Claudio Giorno, Gianfranco Chiocchia);
b) poi, a fine dicembre 2001, è intervenuta la cosiddetta legge obiettivo (tuttora in vigore), con la quale la precedente situazione di fatto è diventata regola giuridica. Con essa – come è stato illustrato da Luca Giunti e da Massimo Bongiovanni ‒ le amministrazioni locali sono state totalmente escluse dall’iter decisionale delle opere ritenute strategiche per il Paese, con attribuzione di ogni decisione di rilievo al Presidente del Consiglio (e al Comitato interministeriale per la programmazione economica). Si è così stabilito per legge che, per il TAV (e per le opere consimili), la partecipazione e il controllo delle comunità interessate sono una inutile perdita di tempo! Superfluo dire che il principio ha fatto scuola tanto che – come documentato ancora dall’avvocato Bongiovanni – nel breve periodo in cui il TAV è uscito dalla procedura della legge obiettivo, si è continuato, in concreto, ad agire come se nulla fosse cambiato…;
c) nel 2006 è stato fatto balenare un cambiamento di rotta in senso partecipativo. Alcune grandi manifestazioni popolari hanno imposto al Governo di centro sinistra, seguito nel maggio 2006 al Governo Berlusconi, l’istituzione un Osservatorio per «realizzare un confronto tra le istanze interessate e analizzare le criticità dell’opera e le soluzioni da sottoporre ai decisori politico-istituzionali». Ma presto è stato chiaro che si trattava del sistema gattopardesco di «cambiare tutto perché non cambiasse nulla». Ne hanno parlato qui i sindaci e i tecnici che hanno partecipato alla prima fase dei lavori dell’Osservatorio o che con esso hanno, nel tempo, interloquito (Sandro Plano, Loredana Bellone, Angelo Tartaglia, Luca Giunti). Io mi limito a tre rilievi riassuntivi perché si tratta di una vicenda assolutamente esemplare:
- l’istituzione dell’Osservatorio è stata, a ben guardare, un inganno per imbrigliare la conflittualità in valle. Infatti esso si è presto mostrato impermeabile a ogni reale discussione sulla opportunità dell’opera fino a quando, nel 2010, è caduta anche la maschera e il Governo ha deciso di «ridefinire le rappresentanze locali in seno all’Osservatorio», ammettendovi «i soli Comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera»;
- nel suo concreto funzionamento l’Osservatorio si è dimostrato un organismo di pura propaganda, spregiudicatamente gestito dal suo presidente, architetto Virano. Lo segnala in modo scolastico la vicenda del cosiddetto accordo di Pra Catinat del giugno 2008, ossessivamente richiamato in Italia e in Europa, sull’onda delle assicurazioni dell’architetto Virano, come prova di coinvolgimento e partecipazione delle istituzioni locali. In realtà non fu un accordo ma un documento sottoscritto dal solo presidente (e confesso che mai, in 40 anni di attività giudiziaria, mi è accaduto di vedere un accordo firmato da una sola delle parti…) in relazione al quale è illuminante il racconto di uno degli amministratori coinvolti, l’allora sindaca di Condove Barbara De Bernardi (che pure era stata tra coloro che avevano dato maggior credito all’Osservatorio), effettuato davanti ad alcuni di voi nella seconda parte della seduta inaugurale di questa sessione, il 14 marzo scorso a Bussoleno (e che potete leggere nel quaderno n. 3 del Controsservatorio):
«Si arriva così al 28 giugno 2008, quando il Presidente dell’Osservatorio convoca una riunione conclusiva a Pra Catinat. Quel pomeriggio ricevo una telefonata da parte di un giornalista di una testata nazionale, che mi chiede una dichiarazione sulla mia firma all’Accordo di Pra Catinat. Cado dalle nuvole. Anche perché mi trovo a 1000 Km di distanza, in Puglia. Ovviamente non ho firmato nulla, né ho delegato qualcuno a farlo al posto mio. Telefono ad alcuni colleghi: anche loro non sono andati a Pra Catinat e anche loro non hanno firmato alcun accordo. Eppure questo è il tenore dei titoli dei giornali del 29 giugno: «Raggiunto l’accordo. Siglata l’intesa sindaci-governo sul tracciato della linea» (così il Corriere della Sera). […]
Chiudo quindi con una domanda, alla quale purtroppo ho già dato risposta: cosa c’è di peggio di uno Stato che non ascolta i cittadini e i loro rappresentanti liberamente e democraticamente eletti? Di peggio c’è uno Stato che mente. Che mente in casa propria e fuori, servendosi di firme mai poste, di accordi mai siglati e di media compiacenti, che anziché cercare la verità si limitano a far da cassa di risonanza a una menzogna. Quasi che una falsità, più volte ripetuta, possa diventare vera. Si è spesso sentito parlare in questi anni della violenza del Movimento No Tav. Chiediamoci, ancora una volta, chi siano in questa storia davvero i “violenti”».
- ma, come si dice, il tempo è galantuomo e il senso reale della operazione Osservatorio è stato svelato negli anni: con la assunzione, da parte del suo presidente, dapprima, del parallelo incarico di capo della delegazione italiana della Conferenza intergovernativa Italia-Francia per la realizzazione dell’opera, e poi, senza soluzione di continuità, di quello di direttore della società preposta alla realizzazione dell’opera. Per usare una terminologia calcistica: non c’è mai stato un arbitro neutrale di una partita regolare e onesta, ma solo un giocatore in più di una delle squadre in campo;
d) infine – ed è storia di oggi – la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è rientrata sotto la disciplina della legge obiettivo, rinforzata, se possibile, da un nuovo intervento legislativo (il cosiddetto “decreto sblocca Italia” del settembre 2014) che, con il dichiarato scopo di «superare la burocrazia e di ridare slancio all’economia e alla iniziativa privata», ha formalizzato il principio che, con riferimento alle opere medie e grandi di trasformazione del territorio, non c’è alcuna necessità di ascoltare le popolazioni interessate.
Ho parlato fin qui di Val Susa, ma è esattamente la stessa esclusione che ha caratterizzato, per esempio, l’autostrada Orte Mestre (di cui persino i sindaci interessati ignorano l’esistenza) o l’aeroporto di Notre Dame des Landes (sottratto ad ogni procedura di confronto perché la relativa deliberazione era intervenuta 10 giorni prima dell’approvazione della legge sul débat public) o, ancora, la linea ferroviaria tra Londra e Birmingham.
4. La seconda costante del “sistema grandi opere” sta – come si è detto – nella elaborazione e nella diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica per determinare l’accettazione dell’opera da parte delle comunità interessate, dell’opinione pubblica e talora degli stessi decisori politici. È una costante anche in altri campi: basti ricordare lo scandalo Volkswagen al centro della scena in questi giorni (che peraltro, rispetto a quanto è accaduto e accade con riferimento al TAV Torino-Lione, sembra un’opera di maldestri dilettanti).
Nel caso Val Susa il metodo assume una connotazione per così dire “di scuola”. Lo hanno documentato molti: da Tartaglia a Ponti, da Cancelli a Franchino, da Clerico a Tomalino. Non ripeto, dunque, cose dette e illustrate in maniera ben più efficace di quanto potrei fare io. Mi limito a sottolineare che tutte le previsioni fatte con riferimento a scadenze già maturate sono state clamorosamente smentite dai dati reali e a ricordare, quanto alle previsioni, che – come vi ha detto il professor Cancelli – quelle dei proponenti sono fondate su modelli, elaborazioni e grafici così fantasiosi che, se esposti da uno studente del secondo anno di qualunque facoltà scientifica, gli costerebbero l’immediata bocciatura e da aver meritato, in un caso, l’inserimento in rete da parte di studenti della facoltà di fisica con il significativo titolo: “il grafico del cappellaio matto”. E tutto ciò – qui sta il punto fondamentale – non per caso, per superficialità o per ignoranza ma per sostenere la necessità e l’urgenza di un’opera in realtà insostenibile e inutile.
Il fatto è che l’accordo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, che resta tuttora l’atto fondamentale relativo alla Torino-Lione, con una inconsueta irruzione di razionalità e di buon senso, ha subordinato la realizzazione della nuova linea alla saturazione di quella storica, e ciò è stato ribadito, per esempio, nel dibattito parlamentare che ha preceduto la ratifica dell’Accordo da parte del Parlamento francese, in cui si è espressamente dato atto che «la saturazione della linea esistente è precondizione indispensabile» della costruzione della nuova linea. Orbene, a fronte di ciò, i cosiddetti errori di calcoloe l’insostenibilità scientifica delle previsioni diffuse a piene mani dai promotori, dal presidente dell’Osservatorio, da ministri, sindaci e giornalisti embedded null’altro sono, in realtà, che prospettazioni inveritiere, consapevolmente dirette a ingannare le comunità locali, l’opinione pubblica, i (pochi) decisori politici nazionali e internazionali in buona fede e a convincerli che la linea storica è prossima a saturazione. E ciò mentre la stessa è attualmente utilizzata solo al 20 per cento delle sue potenzialità e in un contesto in cui i traffici sulla direttrice in questione, lungi dall’aumentare, sono in calo verticale (come confermato dalle rilevazioni intervenute medio tempore).
L’effetto è evidente. La diffusione di quei dati e di quelle previsioni, recepiti e amplificati dalla stampa amica (cioè da tutti i più importanti organi di informazione) ha moltiplicato il potere di condizionamento delle grandi lobby economiche e finanziarie, realizzato una lesione macroscopica del diritto all’informazione della comunità locale e nazionale ed espropriato i cittadini del diritto di partecipare e interloquire, minando alla base una democrazia sostanziale.
Anche qui: non vi sembra di sentire lo stesso racconto, gli stessi inganni che avete ascoltato per il Mose di Venezia, o per la stazione di Stoccarda o per la miniera a cielo aperto di Rosja Montana?
5. Si arriva così al terzo elementofisso dello schema che caratterizza il sistema delle grandi opere: la sostituzione del confronto con lo scontro e la costruzione degli oppositori come nemici della società da isolare, neutralizzare, reprimere.
Espulsa dai luoghi delle decisioni e privata di una informazione attendibile la comunità della Val Susa, i suoi cittadini, i suoi enti locali e i suoi tecnici ‒ affiancati da intellettuali, sindacalisti, uomini della cultura e delle chiese, cittadini di ogni parte d’Italia ‒ hanno prodotto decine di richieste, appelli, proposte, denunce su profili specifici di illegittimità dell’opera in tutte le sedi istituzionali italiane ed europee senza mai ottenere un confronto nel merito e, a maggior ragione, senza mai avere risposta alle critiche e agli argomenti e prospettati (che sono stati ricordati qui, tra gli altri, da Paolo Mattone e Paolo Prieri e che sono documentati nel Q2 del Controsservatorio, inserito nei materiali che sono stati prodotti). In luogo del dialogo c’è stato un ostentato rifiuto delle istituzioni governative e delle società incaricate della realizzazione dell’opera di dare risposta agli interrogativi, alle obiezioni, alle critiche del Movimento No TAV e degli esperti (con la sola eccezione del Governo Monti che, il 9 marzo 2012, ha pubblicato sul proprio sito istituzionale le ragioni a favore dell’opera riassunte in 14 punti, aprendo così un confronto peraltro interrotto dopo le controdeduzioni dei tecnici della comunità valsusina). Neppur prese in considerazione, poi, sono state le richieste di sospendere i lavori e di aprire un tavolo di confronto sulle questioni fondamentali implicate dall’opera con tecnici indipendenti di provenienza extranazionale alle cui conclusioni subordinare il seguito di quei lavori. E ciò anche quando, meno di un anno fa, l’ennesimo scandalo e gli arresti eccellenti che hanno riguardato le grandi opere, hanno portato alla sostituzione del ministro delle infrastrutture, rimasto anch’egli totalmente silente di fronte alle richieste di merito provenienti dalla Valle.
Ne avete avuto la riprova, del resto, voi stessi con la mancata risposta che i proponenti dell’opera, le società costruttrici e le istituzioni responsabili delle decisioni politiche hanno opposto all’invito del Tribunale a confrontarsi con noi in questa sede e finanche con il rifiuto, di fatto, della società costruttrice a consentire la visita di una vostra delegazione al cantiere della Maddalena per avere chiarimenti e delucidazioni, in contraddittorio con tecnici indicati dal Controsservatorio, sull’entità dei lavori, i rischi ambientali e ogni altro profilo di interesse.
Ciononostante il consenso dell’opinione pubblica nazionale nei confronti delle rivendicazioni No TAV ha continuato a crescere sino a toccare nel 2012 – nell'ultima indagine demoscopica nota, realizzata per uno dei più grandi quotidiani italiani, il Corriere della Sera – il 44 per cento degli italiani.
Anche per questo si è aperta una nuova fase: quella della trasformazione del movimento in nemico pubblico. Sono state così varate (nel 2011 e nel 2013) due leggi con cui il cantiere della Maddalena è stato trasformato in «sito di interesse strategico» e il territorio della valle è stato letteralmente militarizzato, addirittura facendo ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all’estero (come vi hanno illustrato, tra gli altri, Paolo Mattone, Alessandra Algostino, Alberto Perino e Guido Fissore). A ciò ha fatto seguito una repressione giudiziaria durissima che – come ha illustrato qui l’avvocato Novaro e come è documentato nel primo quaderno del Controsservatorio Valsusa prodotto agli atti ‒ ha visto centinaia di processi con oltre mille imputati anche per episodi di estrema modestia, misure cautelari prolungate e reiterate, applicazioni estensive della figura del concorso di persone nel reato, reviviscenza di reati di opinione (con il rinvio a giudizio dello scrittore Erri De Luca per istigazione a delinquere per aver sostenuto, con riferimento ad azioni di taglio delle reti del cantiere di Chiomonte, la liceità del “sabotaggio”) e persino contestazioni di terrorismo (disattese dai giudici di merito e dalla Corte di cassazione, ma fonte, per alcuni giovani, di lunghe carcerazioni in condizioni di isolamento).
Anche questo passaggio sembra coincidere, finanche nelle fotografie degli scontri, nel numero degli arrestati, nei tempi dei processi, nella disparità di trattamento, nelle imputazioni contestate con quanto accaduto a Notre Dame des Landes, a Niscemi, a Stoccarda, nei Paesi baschi, a Rosja Montana e via seguitando. E ciò nell’ambito di uno schema ricorrente (anche al di là delle grandi opere), che irrigidisce gli apparati e limita in maniera crescente i diritti costituzionali dei cittadini. È lo schema del diritto penale del nemico, i cui effetti sono stati descritti e criticati in ultimo dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo, nella sentenza 29 maggio 2014 (concernente esponenti del popolo Mapuche contro lo Stato del Cile), anche perché diretto a provocare «paura in altri membri della comunità coinvolti in attività di protesta sociale e di rivendicazione dei loro diritti territoriali o che intendono eventualmente parteciparvi».
6. Quello che è accaduto e accade in Val Susa è dunque accaduto e accade in situazioni molteplici, con modalità sovrapponibili o, comunque, analoghe.
Siamo, in altri termini, di fronte a un metodo, a un sistema.
Di questo sistema ieri l’altro, in una domanda del presidente è stato chiesto il perché? Per quali ragioni si continua a insistere sulle grandi opere se sono fonte di gravi rischi ambientali e di conclamata inutilità economica? La domanda, assolutamente pertinente, ci porta nel cuore del problema. L’insistenza, apparentemente incomprensibile, sulle grandi opere si spiega con la congiunzione di diversi elementi. Tre su tutti: l’esistenza sottostante di grandi interessi economici e finanziari, la sopravvivenza di una cultura sviluppista (o di un’idea di sviluppo) tanto anacronistica quanto dura a morire, la disperazione di un sistema politico incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali:
a) ieri Tiziano Cardosi ha ricordato l’analisi di Salvatore Settis: «le grandi opere non servono, ma serve farle», come dimostra il fatto che spesso vengono finite anni o addirittura decenni dopo la data prevista o addirittura non vengono proprio finite. Non sembri un paradosso. Non c’è opera di cui si è parlato in questi giorni che non movimenti miliardi di euro. Somme ingenti a preventivo, destinate a moltiplicarsi a consuntivi. Si è parlato qui di raddoppio o di triplicazione. Non è così. È molto peggio. Cito un solo esempio: per la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano (tutta in pianura, senza una collina da bucare e con soli due fiumi da superare) si è passati dalla previsione, effettuata nel 1991 e convertita in euro, di un costo di 1 miliardo e 74 milioni di euro alla spesa effettiva, alla fine dei lavori (nel 2010), di 8,3 miliardi. In tempi di crisi sono belle somme… Soprattutto se si considera che si tratta pressoché totalmente di soldi pubblici, anticipati da banche che si garantiscono interessi ingenti e sicuri per decenni a venire. Non è razionale? Certo, non lo è! Ma erano forse razionali i prestiti subprime che hanno innescato la crisi finanziaria più rilevante del nuovo millennio, con danni gravissimi per i risparmiatori e nulli per le banche salvate dagli Stati? È, appunto, un “modello di sviluppo” che serve ai grandi poteri economici e finanziari;
b) la cultura sviluppista è quella che continua, a dispetto della realtà, a pensare a un mondo in continua crescita economica e a investimenti e infrastrutture destinati a sostenerla e incentivarla. È la cultura che consente ai fautori delle grandi opere atti di pura fede come quello secondo cui la caduta dei trasporti sarà arrestata e invertita dalla costruzione di una ferrovia;
c) e c’è, infine, la disperazione di una politica incapace di proporre uscite credibili dalla crisi. I decisori politici sono, a volte, consapevoli che questo sistema non reggerà ma sanno che il suo crollo travolgerà definitivamente e senza prove d’appello la loro credibilità ormai ai minimi storici.
Tutto ciò produce, peraltro, una situazione gravissima, oltre che sul piano economico, anche sul piano etico e culturale come sottolineato, da ultimo, in un documento di straordinaria autorevolezza. Mi riferisco alla enciclica papale “Laudato si’” nella quale si legge tra l’altro:
«I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono a ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi» (punto 56).
«La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante. C’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione» (punto 183)».
Quel sistema, poi, fa venire alla ribalta questioni politiche che rimandano alla pretesa dell’economia (e, per essa, delle imprese, dei grandi gruppi finanziari, dei decisori politici) di essere libera da vincoli, ivi compreso il rapporto con le comunità e le persone toccate dalle grandi opere e il rispetto della loro salute e dei loro diritti. Tutto ciò ha evidentemente a che fare con le regole e i princìpi minimi della democrazia. E quando, per garantire questa pretesa, si arriva a dichiarare dei cantieri «siti strategici di interesse nazionale», assimilandoli a installazioni militari e difendendoli con i soldati – l’esercito in tempo di pace! – è conseguente che i cittadini si sentano defraudati dei loro diritti e si convincano che lo Stato ha dichiarato loro guerra.
È appena il caso di aggiungere che un sistema siffatto non può trovare giustificazione in un asserito potere di maggioranza a cui la minoranza dovrebbe comunque sottomettersi in ossequio all’“interesse generale”.
Il Tribunale permanente dei popoli ha più volte messo in guardia – da ultimo in modo particolarmente efficace nella sentenza 23 luglio 2008 sulle politiche delle transnazionali in Colombia ‒ sul sempre incombente pericolo «di una tirannia della maggioranza» prodotta da un consenso elettorale contingente, sottolineando che «la democrazia non consiste solamente in un procedimento elettorale, ma anche in un dibattito pubblico, aperto a tutti i componenti della società e ad ogni cittadino, a garanzia del libero esercizio di tutti i suoi diritti. Solo in questo modo si può edificare e costituire la “ragione pubblica” per la salvaguardia dell’interesse comune».
Ciò, del resto, corrisponde al pensierodei padri del pensiero liberale, a cominciare dall’aristocratico francese Alexis de Tocqueville che, ritornando da una lunga permanenza in America, nel 1831-32, alla ricerca delle fonti e delle forme della democrazia, scriveva:
«Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte [...] non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. [...] Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere».
Il senso di questa affermazione – e di tante altre consimili – è evidente e sempre attuale. La democrazia non coincide con il principio di maggioranza, che è certamente uno dei suoi cardini ma non l’unico. La maggioranza decide, con il voto, chi deve governare e con lo stesso sistema si prendono le decisioni politiche, che sono, peraltro, frutto di percorsi e confronti necessitati e hanno dei vincoli contenutistici (tanto che alcune costituzioni prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza dei cittadini a fronte di decisioni politiche che violano diritti e princìpi fondamentali). L’assolutizzazione del principio di maggioranza provoca la fuoruscita dal modello democratico nel quale, del resto, diverse funzioni sono guidate da princìpi diversi: bastino gli esempi delle pronunce dei giudici, che sono assunte in base a regole e criteri prestabiliti e non ai desiderata dei più, e del controllo di costituzionalità delle leggi, che è effettuato dalla Corte costituzionale in base a verifiche interpretative che possono condurre alla abrogazione di leggi pur approvate dalla maggioranza e, al limite, dalla totalità del Parlamento).
Dunque, la violazione dei diritti fondamentali delle persone e delle comunità non può essere legittimata da un voto di maggioranza. E del resto, come abbiamo scritto già nel ricorso introduttivo, citando un illustre costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky,
«nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. […] La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione sarebbe meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».
7. Riassumo: l’estromissione dei cittadini e della comunità locale dalla possibilità di concorrere alle decisioni riguardanti il TAV e le grandi opere consimili, la sistematica disinformazione o informazione fraudolenta sui loro presupposti ed esiti, il tentativo di eliminare ogni forma di opposizione con fattispecie giuridiche ad hoc, con la militarizzazione del territorio e con un surplus di repressione penale sono circostanze provate ad li là di ogni ragionevole dubbio. Così come è acclarato, stante l’onnipresenza di questi caratteri, che siamo di fronte non a modalità accidentali e contingenti ma a un metodo, a un vero e proprio sistema di governo di questo settore della vita pubblica e dell’economia.
D’altro canto la possibilità di concorrere alle decisioni che riguardano il proprio habitat, la propria vita e la propria salute e quelle delle generazioni future è considerata un diritto fondamentale dei cittadini e delle comunità anche dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 nella quale, premesso che «è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione», si afferma espressamente – tra l’altro – che «ogni individuo ha diritto a un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge» (articolo 8) e che «ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti» (art. 21, punto 1).
Ciò è stato fissato in maniera univoca dal Tribunale permanente dei popoli, per esempio, nella sentenza 23 luglio 2008 relativa alle “Politiche delle transnazionali in Colombia” laddove, in un passaggio che sembra scritto per la Val Susa e per l’Europa, si afferma:
«il diritto delle donne e degli uomini a essere consultati al fine di ottenere il consenso libero, previo e informato prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li danneggino, prima di adottare qualsiasi progetto che comprometta le loro terre o territori o altre risorse».
8. Resta peraltro aperto, ai fini del vostro giudizio, un problema grave, che è stato posto in questi mesi e che noi stessi ci siamo prospettati nel momento in cui abbiamo presentato il ricorso (e che abbiamo ripreso anche in una successiva memoria presentata il 1 luglio 2014).
Il problema è questo: le prevaricazioni, le illegittimità, i soprusi in atto con riferimento al TAV in Val Susa e alle altre grandi opere esaminate in questa sessione integrano una di quelle violazioni gravi e sistematiche dei diritti fondamentali dei popoli e delle minoranze e/o dei diritti e delle libertà degli individui che (a fianco dei crimini contro la pace e contro l’umanità) legittimano l’intervento del Tribunale permanente dei popoli ai sensi dell’articolo 2 del suo statuto? O, seppur gravi, restano al di sotto di quella soglia, in un mondo in cui ogni giorno si susseguono crimini immani (dalle stragi quotidiane di migranti, sulle nostre coste, sui nostri mari ed anche sulla terraferma, ai veri e propri tentativi di annientamento di popoli in Siria, in Kurdistan, nel Medio Oriente e nel cuore del’Africa)?
Non è un artificio retorico ma una domanda vera che noi per primi – come ho detto – ci siamo posti, perché siamo partecipi di quei drammi, di quelle tragedie, che, anzi, sono spesso diventati parte dell’impegno e della lotta della Val Susa (da ultimo, per esempio, con il gemellaggio e il progetto di aiuti che ha unito il Comune di San Didero – la cui sindaca, Loredana Bellone, avete avuto modo di ascoltare in questi giorni – con la città di Kobane e la regione del Rojava nel Kurdistan siriano). È, dunque, una domanda vera che non sottovalutiamo, ma a cui crediamo, con convinzione, che debba essere data risposta positiva.
Lo abbiamo scritto fin dal ricorso introduttivo: nella nostra situazione (nelle situazioni europee) «la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale, soprattutto nei primi decenni di attività» ma la vicenda della Val Susa e altre consimili «rappresentano – su scala locale e regionale – la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta» sì da rientrare a pieno titolo tra quelle suscettibili di analisi e di giudizio da parte del TPP. Da un lato, infatti, l’articolo 1, comma 2, dello statuto del Tribunale prevede che lo stesso è competente a pronunciarsi, tra l’altro, «sulle violazioni gravi e sistematiche dei diritti e delle libertà degli individui» senza connotazioni aggiuntive; dall’altro, nel diritto vivente, gli interventi del Tribunale si sono progressivamente estesi sino a ricomprendere situazioni in cui erano dedotte violazioni di diritti di individui e di comunità interne a singoli Stati, assai simili a quella in esame: si veda per esempio – oltre alle decisioni citate nel ricorso – la sentenza 21 maggio 1999 (Examen de la plainte déposée par le collectif “ELF ne doit pas faire la loi en Afrique” contre l’entreprise ELF-Aquitaine) in cui si legge, tra l’altro, quanto segue:
«I lavori della Sessione del Tribunale permanente dei popoli sulla ELF si sono appoggiati sulla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, che proclama il diritto di questi ultimi alla autodeterminazione politica e ricorda i loro diritti economici, in particolare quello del controllo sulle loro risorse naturali e al rispetto del loro ambiente. Il caso ELF ha rivelato pratiche che ostacolano l’esercizio di questi diritti. […]
Ripensare il ruolo del Tribunale permanente dei popoli nella prospettiva che ne attua il suo mandato originario richiede che si ponga attenzione ai seguenti problemi :
- il modo in cui i fondamenti delle leggi imperialiste – l’equazione tra l’“ordine” e la protezione della proprietà privata – possono essere messi in causa e limitati rappresenta la formalizzazione della liberazione dalla tirannia economica;
- il modo in cui le procedure previste per “dire” e per “ascoltare” dovrebbero essere innovate per dare il primo posto alle voci di coloro che soffrono, nella prospettiva di creare una forma di giudizio sociale contro la criminalità economica delle transazionali».
9. L’impostazione del Tribunale permanente dei popoli – la vostra impostazione – è chiara e non lascia spazio a dubbi. Ma ‒ mi piace sottolinearlo – è convalidata da altri numerosi elementi
Il primo viene non da un fondamentalismo ambientalista ma dalla già ricordata recente enciclica “Laudato si’” del papa di Roma, nel cui punto 95 si legge:
«L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento “non uccidere” quando “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».
Attenzione alle parole che, ovviamente, non sono usate a caso! Il divieto di devastazioni ambientali irreversibili che attentano alla vita e alla salute delle generazioni attuali e di quelle future viene inscritto, nientemeno, che nei comandamenti fondamentali: «Non uccidere!» e «Non rubare!». E se così è, emerge in tutta evidenza la violazione di diritti fondamentale collettivi insita nella estromissione delle popolazioni interessate dalle relative decisioni.
In secondo luogo, la logica autoritaria delle decisioni prese su questioni così rilevanti e irreversibili è, a tutti gli effetti, una logica di tipo coloniale come quelle che hanno determinato la gran parte degli interventi di codesto Tribunale. Qual era ed è, infatti, l’essenza del colonialismo se non il dominio dell’Occidente sulle risorse di altri popoli imposto con la forza e con una asserita superiorità etica e culturale dei colonizzatori (donde, come usava dire sir Thomas Watt, responsabile britannico in Sudafrica: «a nessuna considerazione di ordine etico, come i diritti dell’uomo, sarà permesso di sbarrare la strada al dominio bianco»)? Ma non sono questi – ovviamente con i dovuti adattamenti (mutatis mutandis, come dicono i giuristi) ‒ gli argomenti usati nei confronti degli oppositori al TAV e alle grandi opere consimili, considerati alla stregua di ignoranti nemici del progresso, preoccupati solo del “proprio giardino” e magari usi alla violenza, con conseguente legittimità anche della forza (in luogo del dialogo) per ridurli al silenzio? Parlo, ovviamente, di logica, di cultura sottostante, non di gesti concreti. Ed è questo che connette la decisione a cui oggi siete chiamati con le decisioni del Tribunale di decenni fa, relative, per esempio, al Sahara (1979), a Timor Est (1981), allo Zaire (1982), al Guatemala (1983). Nella sua storia ‒ lo sappiamo bene – il TPP si è sempre occupato, con le sole eccezioni della ex Jugoslavia e di Chernobyl (sentenze 20 febbraio e 11 dicembre 1995 e sentenza 15 aprile 1996), di violazioni di diritti avvenute in Paesi extraeuropei. Non per caso ma per la sua origine, legata alla esperienza del colonialismo (come espressamente affermato nella Carta di Algeri del lontano 4 luglio 1976). Nel nuovo millennio, peraltro, al colonialismo classico si sono affiancate altre forme di sfruttamento e di espropriazione dei diritti dei popoli e dei cittadini conseguenti al potere assoluto e incontrollato della forza e della ricchezza. Ed è dunque comprensibile e coerente che il Tribunale si arricchisca di queste nuove competenze, come ha fatto, del resto, quando si è occupato di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale (1988-1994), di rischi industriali e diritti umani (1994), di diritti dell’infanzia e dei minori (1995), di diritti dei lavoratori dell’abbigliamento (1998).
E c’è una terza considerazione. Le violazioni di diritti di cui ci occupiamo oggi sono certo meno eclatanti di altre ma sono il segnale di quanto ci aspetta in futuro. Nelle società contemporanee, percorse da nuove derive decisioniste e autoritarie accade sempre più spesso che il centro sia cieco e che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da vicende che riguardano parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e disastri indicibili. Spetta al TPP, da sempre in anticipo sui tempi, dare il proprio contributo nel ribaltare l’imperante ottica miope e inadeguata e nel denunciare e condannare le violazioni dei diritti fondamentali di quote apparentemente limitate di popoli, anche per evitare che esse diventino un metodo di governo generalizzato della società.
10. È alla luce di tutto questo che sottoponiamo al Tribunale dei popoli le nostre richieste.
Le grandi opere e le pratiche che le accompagnano, in Val Susa, in Italia e in Europa, non esauriscono i loro effetti nella costruzione di una diga o di un megaponte, nell’abbattimento di una foresta o nel traforo di una montagna (già di per sé, talora, produttivi di eventi terribili, come dovrebbero ricordare, nel nostro Paese, i 1.9l7 morti della tragedia del Vajont del 1963, rimossi dal dibattito sulle grandi opere) ma incidono – come l’esperienza di questi anni insegna – sui meccanismi complessivi di funzionamento delle istituzioni e della stessa democrazia. Per questo noi – e con noi le comunità di Notre Dame des Landes, di Londra, Birmingham e Manchester, di Rosia Montana e Corna, dei Paesi Baschi di Francia e di Spagna, di Stoccarda, di Venezia, di Firenze, della Basilicata e delle regioni d’Italia interessate ai progetti di trivellazione, di Messina, di Niscemi e di tante altre parti d’Italia e d’Europa ‒ chiediamo al Tribunale permanente dei popoli di dire, con l’autorevolezza che le conferiscono la sua storia, la sua composizione e la sua indipendenza:
- che in Val Susa sono stati violati i diritti fondamentali degli abitanti e della comunità locale ad essere correttamente informati e a partecipare, direttamente e tramite i propri rappresentanti istituzionali, alle decisioni concernenti la progettazione e la realizzazione della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione (nota come TAV), decisioni cruciali in quanto incidenti sulle risorse naturali, sull’ambiente, sulla salute e sulla stessa aspettativa di vita delle generazioni attuali e di quelle future;
- che tale violazione è stata realizzata con deliberate omissioni (in particolare il mancato coinvolgimento della comunità locale e dei suoi rappresentanti istituzionali nelle decisioni concernenti la nuova linea ferroviaria, l’omessa attivazione di procedure di effettivo confronto e concertazione, la mancata previsione di ricorsi giurisdizionali adeguati contro l’estromissione dei cittadini dalle decisioni anzidette) e con comportamenti attivi (in particolare la manipolazione dei dati relativi all’utilità e all’impatto delle opere, nonché l’elaborazione al riguardo e la conseguente diffusione di informazioni, previsioni e dati inveritieri e/o scientificamente infondati su caratteristiche, utilità e ricadute dell’opera; la predisposizione di provvedimenti legislativi tesi a escludere la partecipazione e a criminalizzare le manifestazioni di protesta; l’adozione di prassi e interventi amministrativi e di polizia caratterizzati dalla stessa finalità e giunti fino al controllo del territorio con l’esercito e a un uso sproporzionato della forza nei confronti di oppositori e manifestanti talora anche grazie ad appositi provvedimenti legislativi, al controllo militare del territorio e all’intervento massiccio degli apparati repressivi (con significative limitazioni di diritti dei cittadini costituzionalmente garantiti);
- che a realizzare questa violazione hanno concorso i gruppi proponenti dell’opera, le società incaricate della sua realizzazione e i governi nazionali succedutisi negli ultimi due decenni (che hanno agito direttamente e tramite funzionari preposti ad articolazioni fondamentali come l’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione) e che la violazione è stata consentita o agevolata dalle competenti istituzioni europee (commissario designato dalla Commissione europea a Coordinatore del Progetto Prioritario TEN-T n. 6 e Commissione Petizioni del Parlamento europeo) con l’accettazione acritica dei progetti predisposti dai proponenti e dai governi, con la mancanza di adeguati controlli e con l’omessa considerazione delle istanze provenienti dalla comunità della Val Susa e dai suoi tecnici;
- che il sistema accertato con riferimento alla Val Susa è espressione di un modello di governo del territorio e delle dinamiche sociali di stampo neocoloniale fondato sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate (considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili);
- che tale modello di governo è ormai diffuso in Italia e in Europa, come dimostra la gestione delle numerose vicende esaminate in questa sessione e in particolare, per limitarsi alle più rilevanti, di quelle dell’aeroporto di Notre Dame des Landes in Francia, della miniera a cielo aperto di Rosia Montana in Romania, della linea ferroviaria “Y basca” in Spagna, del ponte di Messina, delle dighe del Mose a Venezia e delle trivellazioni per la ricerca di idrocarburi in diverse regioni d’Italia;
- che tale sistema è in palese contrasto con le prescrizioni di numerosi trattati e atti internazionali (in particolare, della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, che prevede, in materia ambientale, una «informazione adeguata, efficace e tempestiva», la partecipazione effettiva dei cittadini ai lavori «durante tutto il processo decisionale» e l’obbligo delle istituzioni competenti di «tenere adeguatamente conto dei risultati della partecipazione» dei cittadini), viola i fondamenti della democrazia partecipativa (conseguente alla affermazione, presente nella gran parte delle costituzioni occidentali, secondo cui «la sovranità appartiene al popolo») e mette a rischio, anche nel cuore dell’Europa, i princìpi fondamentali affermati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Ho concluso. Nel consegnare al Tribunale permanente dei popoli queste richieste avverto l’inadeguatezza delle mie parole per descrivere la gravità delle violazioni di diritti fondamentali connesse con il sistema delle grandi opere e i guasti da esso prodotti (e ancor più suscettibili di essere prodotti) nel governo delle società e nel rapporto tra i grandi poteri economici e finanziari e i cittadini. Mi solleva la convinzione che quanto io non ho saputo dire vi sia stato trasmesso dalla tensione, dall’intelligenza, dalla passione, dal rigore di quel frammento di comunità che avete avuto modo di conoscere in questi giorni.
Vi ringrazio per l’attenzione.
livio pepino